Riflessioni al tempo del coronavirus
“Condomìnio”è la parola più diffusa nell’abitare contemporaneo.
Più che a una forma architettonica precisa, il termine si riferisce a una modalità di coabitazione che accorpa più unità di proprietà individuale attorno a un’ossatura in comproprietà della quale , secondo una logica millesimale, i diversi proprietari condividono i costi e la gestione.
Tale ossatura è nella gran parte dei casi ridotta al minimo indispensabile per far funzionare tecnicamente le unità singole: si tratta in genere delle scale, degli ascensori, delle strutture portanti, delle coperture, degli ingressi, dei locali tecnici... A volte, quando ci sono, dei giardinetti e delle portinerie.
Le persone che abitano nei condomìni scelgono il loro appartamento, apportando le piccole modifiche e personalizzazioni consentite da capitolati standard: di certo non scelgono i loro vicini.
E così succede che, blindati dietro le loro porte, gli abitanti dei condomìni spesso non si conoscano neppure e che gli incontri siano quelli casuali nei vialetti d’ingresso, sugli ascensori, o in occasioni obbligate come le assemblee.
Potremmo scrivere un lungo libro sulle assemblee condominiali: penso che Ennio Flaiano, che ho riletto in questi giorni, con la sua tagliente ironia potrebbe descrivere brillantemente il clima teso e aggressivo che le caratterizza.
Ogni volta che ne frequento una per motivi di lavoro penso che Giorgio Gaber avesse ragione quando cantava che “la democrazia è una superstizione” : e penso pure che quello dell’amministratore sia un mestiere accessibile soltanto a chi possiede un fondo di follia e la capacità di sorvolare con assoluta indifferenza sulle faccende della vita.
I sistemi di regole dell’istituto del condominio sono ormai ampiamente codificati all’interno di giurisprudenze e codici, ma, nonostante questo, dalle statistiche emerge che il tasso di litigiosità e contenziosi ascrivibile a questa dimensione del coabitare è veramente elevatissimo e in continua crescita.
Penso che sarebbe diverso se potessimo ribaltare l’assunto iniziale: e cioè se le parti comuni non fossero concepite esclusivamente come ossatura tecnica delle unità private, ma come cuore significativo di un progetto di coabitazione condiviso. Spazi condominiali come servizi interni, di cui condividere i costi, la progettualità e la gestione. Flessibili e permeabili. Vicini, comunitari.
Sono tante le cose che si potrebbero condividere con vantaggi per tutti, in primo luogo quello di liberare gli spazi individuali di ingombri che si moltiplicano per enne volte come le lavanderie, gli stenditoi, i congelatori, elettrodomestici ingombranti...
Ma spingendoci oltre si potrebbero condividere aspetti molto più delicati: per esempio gli anziani e le loro cure, i bambini e le loro cure.
Perché non pensare che tra le parti in comproprietà di un condominio ci siano anche spazi adibiti a loro, con economie di scala e di senso?
Spazi per l’abitazione dei nonni in piccoli gruppi , non lontani dai familiari, ma al piano di sotto.
Si farebbero compagnia tra di loro e sarebbe facile passare a salutarli, figli e nipotini.
Potrebbero avere un’unica persona che li assiste nelle faccende quotidiane: potrebbero essere controllati con regolarità da un medico e da un infermiere.
Potrebbero i nonni, quando ancora in buona salute, svolgere mansioni per gli altri abitanti del condominio. Essere ‘utili’ e ‘produttivi’ in uno scambio non di denaro, ma di tempo e di esperienza.
Costerebbe troppo? Si rispetto ai parametri attuali, ma molto meno se introducessimo parametri diversi. Per esempio:
- Che questi spazi, riconosciuti come servizi sociali, rientrassero tra gli standard urbanistici a scomputo degli oneri di costruzione.
- che questi spazi e le spese conseguenti fossero detassabili per i comproprietari
- che ci fossero linee di credito facilitate e non esose.
- che venissero concepiti come punti di una rete territoriale di assistenza/ sanità che lasci ai centri ospedalieri il compito delle cure più complesse e che lasci ampi spazi al terzo settore e alle imprese sociali
- .......
Una logica di sistema per il ridisegno del welfare a partire dai modelli abitativi più diffusi, con l’obiettivo del decentramento di alcuni servizi e della costruzione di una città ‘corta’, a portata di gamba: l’opposto dell’accentramento in pochi punti perseguito dal sistema sanitario lombardo del quale, in questo periodo di pandemia, abbiamo verificato la drammatica implosione.
Quanto costa, sempre che lo si trovi, un posto in una casa di ricovero o una degenza ospedaliera?
O un posto in un asilo?
In termini economici e in termini affettivi e di equilibrio sociale?
Si potrebbero condividere gli spazi per lo studio dei ragazzi, le librerie.
Un luogo ben organizzato per tutti piuttosto che molte piccole scrivanie/ librerie isolate nelle camerette striminzite. E li si potrebbero organizzare a turno lezioni speciali, a cura dei condómini ( ma non solo) che non sono mai soltanto millesimi aritmetici , ma persone portatrici di esperienze e di saperi.
E che dire degli spazi esterni? Perché non pensare a un orto condominiale?
O a un garage che ospiti un limitato numero di auto elettriche e biciclette in condivisione?
Spazi co-progettati che trasformino la coabitazione condominiale in un’esperienza di senso e di comunità.
E le assemblee annuali, rissose e insopportabili , in momenti diffusi di intelligenza collettiva e di costruzione concreta della polis.