Riflessioni al tempo del coronavirus
Ho frequentato la facoltà di architettura di Venezia a cavallo tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta: erano gli anni in cui gli esempi più gettonati nei programmi educativi per gli studenti erano le hof della Vienna rossa, le siedlungen della Berlino di May e Taut, le unitè d’abitation di Le Corbusier, il Gallaratese di Aymonino e Rossi, via via – pare attualmente impossibile da credere – lo Zen di Palermo, il Corviale di Roma…
Erano i tempi in cui gli architetti pensavano che la forma degli edifici, spesso di grandi dimensioni, avrebbe da sè sola favorito l’incontro, la condivisione, la nascita di un sistema di relazioni positivo tra gli abitanti.
È noto il fallimento di molti quartieri ad alta densità nati con le migliori intenzioni, calati come meteore sul territorio, senza alcuna politica adeguata di accompagnamento e sostegno nella gestione, privi di manutenzione e infrastrutture, sacche concentrate di povertà ed emarginazione. Zone off limits.
Quartieri e fabbricati contagiati dal virus dell’abbandono che, come il coronavirus, dilaga in maniera esponenziale e si allarga a macchia d’olio se non si fermano i focolai iniziali.
Sta di fatto che anche i più ortodossi degli addetti ai lavori, gli architetti fedeli alla linea delle grandi stecche, oggi mettono in dubbio l’efficacia di modelli abitativi che addensano una grande quantità di persone in un rapporto di prossimità e di coabitazione, mentre è sempre più chiaro che al di là dell’architettura e delle sue ragioni, gli abitanti del mitico Karl Marx Hof della Vienna operaia con la sua facciata lunga un chilometro, avevano tra di loro un legame intenso e prioritario che era la coscienza di classe, l’individuazione di nemici comuni, di valori sociali condivisi nella lotta per la sopravvivenza e la conquista dei diritti civili.
Non è l’edificio che crea la comunità, ma è la comunità che sa dare un senso, un sistema di regole, uno sfondo comune all’azione complessa dell’abitare i luoghi.
Come diceva Patrick Geddes ( è il volto intelligente della fotografia), pioniere dell’ecologia urbana, “l’evoluzione della città e l’evoluzione dei cittadini sono due processi che devono svolgersi insieme“: quando ciò non avviene la città non funziona e, prima o poi, ci presenta costi molto alti da pagare.
Rigenerare quelle che da utopie sono diventate distopie urbane, vuol dire in primo luogo rigenerare la comunità che le abita con un lavoro paziente, di cura e di grande attenzione alla ri-costruzione del tessuto sociale: alcune recenti esperienze per la rinascita di Scampia e del Corviale indicano una strada importante in questa direzione.