Ho studiato architettura allo IUAV di Venezia, tra il 1975 e il 1980, negli anni in cui in quella facoltà potevi incontrare il gotha della disciplina in tutte le sue sfaccettature: da Aldo Rossi a Vittorio Gregotti, da Gino Valle a Giancarlo De Carlo, da Bernardo Secchi a Francesco Indovina, Massimo Cacciari, Francesco Dal Co, Mario Manieri Elia, Manfredo Tafuri….
Carlo Scarpa l’ho incrociato da matricola al mio arrivo in Università: insegnava a quelli più grandi ma, ogni volta che potevo, andavo ad osservarlo, anche se – ora ne sono certa – non avevo a quel tempo alcuno strumento per capire i suoi contenuti e quello che mi spingeva era soprattutto la curiosità suscitata da alcuni vezzi estetici, in particolare il grande anello di turchese e i cappelli che il maestro sfoggiava, oltreche una densa annedottica di leggende metropolitane che giravano nei corridoi della facoltà e lo descrivevano come personaggio bizzarro, metereopatico, eccentrico oltre ogni misura… insomma come un artista a tutti gli effetti secondo i luoghi comuni di una 18enne alla ricerca della sua identità.
Non so a tutt’oggi cosa mi abbiano insegnato queste figure straordinarie che dalle cattedre sfilavano davanti a me con le loro prepotenti personalità. Di certo non il mestiere dell’architettura, di certo non le regole del mercato immobiliare dentro il quale, una volta finito il mio percorso universitario, mi sarei trovata senza capirci assolutamente nulla.
Di certo hanno attirato la mia attenzione con la forza dell’innamoramento , non della ragione e tanto meno della strategia. Li ho ascoltati e guardati come si ascolta e si guarda un bel film, con avidità, con autentico piacere. Ho amato totalmente la mia vita da studente veneziana.
Mi affascinava l’agilità con cui Tafuri per spiegare la storia dei grattacieli saltava danzando con le parole dall’epopea dei pionieri, ai musical e ai western di Sergio Leone: ogni volta si aprivano nuovi orizzonti, direzioni insospettabili per i prossimi percorsi.
Mi sentivo piccolissima e contemporaneamente onnipotente.
Leggevo continuamente, studiavo, inseguivo le parole cercando di metterle in fila.
Anche Venezia ha giocato una parte importante: abitare lì per 5 anni non è stata un’opzione neutra e senza peso, perchè essere studente a Venezia è completamente diverso che esserlo nella socievolissima Bologna o giocando a carte sul treno per pendolari che collega quotidianamente Bergamo a Milano.
Abitare in laguna, soprattutto d’inverno, significa camminare, camminare molto e senza rumore. Favorisce la crescita di una mentalità riflessiva, ma anche ondivaga e in movimento. Per strada, intanto che cammini, apri una conversazione con te stessa, ti inoltri via via all’interno dei pensieri e i tuoi ragionamenti li senti risuonare lungo le calli, come se ci camminassi a fianco. A Venezia il pensiero diventa tuo compagno di strada.
Di certo ciò che il mio periodo veneziano mi ha lasciato è la certezza che imparare è un viaggio che non finisce mai, che le cose, anche le più diverse, sono connesse tra di loro, che le cose aspettano un’interpretazione e che è la tua capacità di interpretare che le fa vivere in una cornice di senso, togliendole dall’oscurità dell’ignoto.
Che quindi ogni cosa, anche la più piccola e marginale, può portarti entro mondi allargati.
Nel 1981 sono stata ammessa al Perfezionamento di storia dell’arte medioevale e moderna della Facoltà di Lettere e Filosofia di Bologna: il diploma di perfezionamento era il titolo post-laurea che, negli anni successivi, sarebbe stato sostituito dal dottorato di ricerca.
Fu una scelta precisa e fortemente voluta: non sopportavo le lacune che il percorso di studi già fatto mi aveva lasciato nei confronti dell’arte, delle grammatiche dei segni che l’architettura aveva depositato nel corso dei secoli.
Avevo bisogno di vocaboli, di criteri, di cronologie: di un passato strutturato per capire il presente, di radici su cui impostare una crescita meno casuale.
Bologna, a differenza di Venezia, è stata per me uno sfondo poco vissuto: andavo e venivo per gli esami e per gli incontri con i docenti anche perché, contemporaneamente, lavoravo al Politecnico di Milano. Di questo periodo di studi ciò che mi si è stampato dentro è quindi soprattutto il contenuto, l’amore per l’arte, i libri che ho letto e alcuni degli incontri che ho fatto.
Ricordo con emozione intatta l’esame di estetica sostenuto con Luciano Anceschi, grande filosofo e uomo di pensiero.
L’ho affrontato con timore e reverenza: “non ho una formazione filosofica, dovrà tollerare la mia pochezza” gli dissi al primo incontro.
Quando tornai per l’esame mi rincuorò con affetto e mi diede quel 30 e lode che a tutt’oggi mi riempie con lo stesso orgoglio di allora.