Camminando domenica mi sono vista allo specchio: in una situazione di ozio tranquillo, senza affanni né corse, ho incontrato, passeggiando, amiche che spesso intravvedo, ma che da molto tempo, probabilmente, non guardavo.
Ho incontrato le donne e incontrandole ho visto in loro una parte di me.
R., cinquantacinquenne, salottiera tessitrice di relazioni, elegante e di “mondo”, madre di due figli ormai grandi, moglie di un uomo morto lo scorso anno: mi ha parlato amabilmente della dieta che ha fatto, mi ha mostrato la pelle delle braccia che, dopo la menopausa, repentinamente s’è lasciata andare e del collo che, più dì ogni altro pezzo del corpo visibile, rivela senza equivocabilità il tempo che passa.
Niente di che; R. conosce l’ironia, i suoi non erano discorsi opprimenti, ma mi è sembrato di vedere in lei, ben camuffato, lo smarrimento di un’enorme quantità di donne.
E poi M., più giovane di due decenni, abbronzata e ben vestita, ma ugualmente preoccupata dall’aumento di peso che non riesce a controllare: è separata dal marito, che ora sta con una ventenne e mi sorprendono i suoi toni e le sue parole del tutto simili a quelli dei discorsi tra ragazzine. Per certi temi le donne non cambiano mai, rimangono adolescenti, fragili e forti, intatte come chi non ha ancora esperienza.
E ancora la piccola D., sua figlioletta di undici anni, carina e vivace, vezzosa e seducente come solo le bambine sanno essere: tento di immaginarmela più grande, come diventerà?
Sono tanti, ormai troppi i segni e i suoni di cui, anche senza volerlo ci siamo riempite gli occhi e il cuore negli ultimi tempi: dal papi di Noemi, ai miti di Amici e di X Factor, via via fino all’inesauribile valanga di messaggi pubblicitari che parlano di creme, diete, gioventù.
Ciò che colpisce nell’estetica di Facebook, non è il culto dell’immagine, ma la sua standardizzazione verso un canone prevalente fatto di giovanilismo, divertimento, calici alzati: tutti bevono drinks, cantano e ballano.
Ma se la bellezza sta nella gioventù del corpo, nel suo saper piroettare, nel mostrare carne soda e pelli lisce come la seta, che senso ha in questo mondo vivere dopo i cinquant’anni? E ancora: se il tuo corpo giovane e perfetto viene assunto come il massimo valore di scambio, che senso ha vivere in questo mondo quando sei brutta, oppure malata, oppure diversa?
Aderire all’idea di bellezza propagata nel mondo dell’immagine mediatica è una condanna all’infelicità, perché significa aderire a criteri sui quali è impossibile e patetico tentare di incidere.
La lotta per l’eterna gioventù è persa in partenza, non ci sono vincitrici, ma solo sconfitte amare.
Esiste la bellezza fuori dal corpo giovane?
SI!

L’idea di bellezza non è immutabile, a priori, fuori di noi.
La bellezza cambia nel tempo, nello spazio della geografia e delle culture.
La bellezza vive con noi e quindi ci appartiene, come un prodotto al suo ideatore, come un progetto all’architetto che lo disegna.
La bellezza non è una gabbia di infelicità in cui siamo costrette a entrare, è un processo creativo, estetico ed etico.
Non è un canone irraggiungibile e perciò crudele, ma un percorso da interpretare con libertà e intelligenza. Basta solo di-mostrarlo spostando lo sguardo verso dettagli “non di moda”, verso geografie diverse, illuminando parti nascoste, pezzi esclusi dalla ribalta ma non per questo poco interessanti, anzi, proprio per questo molto interessanti.
Dai sensi comuni al senso originale.
Un facebook per chi voglia di-mostrare di essere bella davvero e capace di costruire la propria felicità.

P.S. Da alcuni anni frequento la piscina comunale, un’ora alla settimana per mantenere in forma il mio corpo che invecchia.
Un’ora alla settimana è pochissimo e probabilmente quasi del tutto inefficace rispetto all’obiettivo ambizioso di tener a bada l’invecchiamento. Quest’ora offre però più di un vantaggio: è molto divertente, rilassante e mi consente di tenere sott’occhio il processo del mio disfacimento fisico, costretta come sono letteralmente a denudarmi e quindi a osservarmi oltre ogni capacità cosmetica.
La piscina è un interessante luogo di incontro delle altre donne: ce ne sono di tutte le età, magre e grasse, belle e brutte, chiacchierone e taciturne.
Mi piace guardarle e ascoltarle mentre si fanno la doccia e asciugano i capelli: pensano sempre a qualcun altro, figli, fidanzati, mariti. Hanno giornate densissime di attività, non ci sono spazi liberi.
Anche la cura del corpo appare spesso come un gesto dovuto, dettato dal senso di responsabilità nei confronti degli altri, che hanno bisogno della tua salute e della tua bellezza.
Molte donne usano il corpo con pudore e insicurezza: lo capisci quando affrontano il percorso che dallo spogliatoio femminile conduce alla vasca comune, coperte da salviette e accappatoi che vengono abbandonati solo all’ultimo minuto, un attimo prima di entrare in acqua, sottraendo subito all’altrui vista la carne e le sue imperfezioni.
Altre invece si muovono con più naturalezza e indifferenza: io sono in questa categoria. Non ho mai considerato l’ipotesi di piacere a tutti, certa del fatto che sono pochi a piacermi davvero.
A. invece è speciale: con lei si muove l’erotismo universale, la preda primordiale.
Al suo passaggio gli sguardi si sollevano, donne e uomini, tutti noi non possiamo fare a meno di girarci e seguire la sua andatura senza incertezze, sospinta dalla vocazione autentica e innata di sedurre.
Con un compiacimento giovanilista e un po’ cavernicolo la chiamiamo “la figona”: non c’è alcuna volgarità in questo appellativo, nessuno scherno o moralismo.
“Figona” è uno stile di vita, un linguaggio totale: è la capacità , primaria e diretta, di farsi strada con un’armata di ferormoni, rendendo inutili e per questo un po’ patetici, percorsi più contorti e faticosi a base di intelletto e pari opportunità.
A volte mi sorprendo a pensare a come sarebbe stata la mia vita vissuta da “figona”: senz’altro diversa.
Non ho scelto di non esserlo: è andata così.
Forse anche A. non ha scelto di esserlo: la guardo con attenzione e la studio.
Sarà per la prossima vita.

illustrazione © Francesca Perani