Si vede tutto da cima Peina, il punto più alto della Marmolada a 3342 metri, facilmente raggiungibile grazie a una funivia che in pochi minuti consente a chiunque di salire dai 1480 metri di Malga Ciapela fino alla vetta che domina lo strabiliante paesaggio della catena dolomitica.
Dal momento in cui si prende posto sulla cabina, tutto ciò che si percepisce è memorabile e speciale.
L’ascesa avviene rapidissima in tre segmenti di percorso che lasciano senza fiato, il primo in particolare, che supera un dislivello di 950 metri senza piloni intermedi, con una campata unica di cavo tesa tra le due stazioni, quella a valle circondata dai prati verdi di un paesaggio addomesticato e colorato di gerani ai balconi, quella a monte abbarbicata sulle rocce di dolomia pallida della montagna già alta, senza vegetazione e dolcezza, rude e spigolosa.
Colpisce e commuove il rapporto tra l’ambiente estremo, esclusivo e sublime della montagna e la straordinaria qualità della tecnologia che l’uomo ha messo a punto per accedervi: la Marmolada, regina delle Dolomiti corrugata dai tempi della geologia, sacra e incommensurabile, ben convive con l’impianto di risalita realizzato dalla nostra fragile specie, in un rapporto che riassume, mettendoli in contatto, caratteri antitetici, rispetto e sfida, paura e coraggio, piccolezza ed enormità, fugacità e durata.
Il meglio dell’intelligenza umana ha reso accessibile e facile un luogo difficilissimo e con esso la percezione di un paesaggio indimenticabile.
Da cima Peina si vede “tutto”: lo sguardo può abbracciare a 360 gradi una porzione profondissima di territorio, nella quale i gruppi delle Dolomiti si succedono perdendosi all’orizzonte, “dentro” una vista che trasforma l’immagine a distanza a cui siamo abituati nella versione mediata e fredda di Google, in esperienza viva e corporea, pulsante e febbrile.
La percezione è fatta di sguardo, ma anche di suoni e silenzi, di respirazione, di vento e di aria, di pulsazioni cardiache, di pressione corporea. I nostri sensi vengono travolti nell’arco di pochi minuti da un sistema di sollecitazioni eccitante e diverso.
Vedere il mondo dall’alto e da lontano consente di afferrare i rapporti tra le cose che normalmente sfuggono, significa spostarsi fuori da ciò che più spesso vediamo da dentro, acquistando la possibilità di comprensione dell’insieme che soltanto la distanza consente.
La vista dall’alto è una vista sistemica e razionale, astratta e distaccata, ma, contemporaneamente, è la vista delle grandi emozioni , tipica della poetica del sublime, perché evidenzia la piccolezza dell’uomo, la sua debolezza, il suo essere precario, minuto e fugace nel mondo e nel suo senso.
Cima Peina è un grande teatro nel quale si assiste alla messa in scena della montagna e dell’uomo che la osserva: è un’esperienza concentrata di coscienza in cui scorrono descrizioni e immagini, poesie e opere d’arte già vissute e lette, che finalmente ci sembra di capire con chiarezza e con intensità.
In cima alla grande roccia ci sentiamo come il “viandante sul mare di nebbia” di Caspar Friedrich, spettatori al centro della grande rappresentazione del mondo.
Tutto il sistema dolomitico attrezzato per il turismo di massa può essere letto come una sapiente opera di teatralizzazione dell’ambiente naturale, volta a esaltarne la bellezza, rendendola spettacolo percepibile ai più, godibile grazie a un efficiente sistema di accessibilità che ha reso facili e confortevoli percorsi dai quali, a piedi, in auto, con gli sci, si può percepire, spostando continuamente il punto di vista, un’infinita successione di variazioni panoramiche nelle quali i gruppi rocciosi esibiscono tratti, colori, suggestioni che cambiano con la luce del giorno.
La vertigine della distanza spaziale si somma a quella della profondità temporale quando pensiamo che le Dolomiti hanno avuto origine duecentocinquantamilioni di anni fa dalla sedimentazione di alghe, conchiglie e coralli di mari caldi e poco profondi: quello che ora si stende davanti al nostro sguardo è un paesaggio nato dallo scontro tettonico tra la placca euroasiatica e quella africana che ha spinto in alto, facendole emergere fino all’altitudine attuale, le rocce che giacevano sommerse nell’acqua marina.
Di certo in questa eccitazione sensoriale stupisce e impressiona visitare il museo della grande guerra che è stato installato nella stazione centrale del percorso della funivia – Punta Serauta – a quota 2950 metri.
Il museo raccoglie i cimeli emersi via via grazie alla ritirata progressiva del ghiacciaio provocata dal mutamento climatico degli ultimi anni: fucili, mitragliatrici, attrezzi, vestiti militari raccontano della breve parentesi tra il 1916 e il 1917 in cui la sacra montagna è stata luogo di scontri violenti tra le truppe italiane e quelle austriache, stanziate a pochi metri di distanza l’una dall’altra, tra la Punta Penia e la Punta Serauta, a difendere il confine che all’inizio secolo attraversava il ghiacciaio della Marmolada, fino al passo Fedaia.
Per più di sedici mesi, soldati di entrambe le nazionalità hanno vissuto e combattuto in quest’ambiente estremo, al quale veniva riconosciuto il valore di postazione strategica per il controllo dei movimenti a fondo valle.
Commuovono i racconti di come una notevole parte delle energie dei militari fosse assorbita dalla necessità non tanto di combattere, quanto di poter vivere in un luogo che di certo all’inizio del secolo scorso presentava condizioni davvero ardue di sopravvivenza.
Commuovono i segni di trasformazione che gli alpini, giovanissimi uomini della Brigata Alpi, hanno lasciato durante il breve periodo della loro permanenza, nelle rocce della sacra e antichissima montagna, scavando gallerie, camminamenti, rifugi.
Straordinarie e ancora più commoventi sono le testimonianze che ci ricordano l’esistenza della città di ghiaccio costruita dai soldati austriaci, dieci chilometri di gallerie, passaggi e vani realizzati nello spessore del ghiaccio in modo tale da renderne la presenza invisibile dall’esterno, ora del tutto scomparsi insieme al ghiacciaio che copriva la forcella V, metafora intensa della fugacità delle opere umane e dell’ingegno della nostra specie.
La città di ghiaccio non c’è più e neppure il confine che cent’anni fa separava due stati nemici, linea astratta sovrapposta alla concretezza della roccia.
Il museo della guerra di Punta Serauta ci fa riflettere sul rapporto tra l’uomo e gli altri uomini e tra l’uomo e la natura ed è un punto di domanda sul senso del nostro operare, che la grande montagna pone ai visitatori.
L’aver riservato uno spazio alla memoria in questo luogo ora così facile, senza sangue e sudore, è un segno di responsabilità nei confronti del quale, come visitatrice, provo un senso di sincera riconoscenza.

Da Punta Peina si vede tutto e di tutto. L’accesso facile senza sangue e sudore, scarica ogni giorno d’agosto orde di turisti, figlie dei modelli di sviluppo della globalizzazione, avide di paesaggi spettacolari e unici .
C’è tanto da riflettere in materia , in molti stanno tentando di dare forma e attuazione concreta all’urgenza di fare in modo che il diritto al turismo e con esso alla scoperta e alla condivisione delle bellezze del pianeta, non diventi un’arma micidiale per distruggerle, travolgendo con flussi inconsapevoli e devastanti ambienti che hanno mantenuto un’identità specifica grazie anche al loro essere marginali e difficilmente accessibili.
Vale per gli ambienti naturali ma, ugualmente, per i paesaggi culturali, per gli usi, i costumi, gli idiomi, i cibi, le espressioni. Fino a che punto i flussi possono arricchire portando con sé fertili elementi di scambio e quando invece diventano elementi di distruzione delle identità, di omologazione , di impoverimento degli ecosistemi?
Le Dolomiti rappresentano di certo un esempio evoluto di capacità di accoglienza per grandi masse di turisti e, contemporaneamente, di mantenimento intelligente e sostenibile del territorio, delle sue caratteristiche ambientali e delle sue tradizioni culturali.
L’inserimento nei siti dell’Unesco dichiarati patrimonio dell’umanità porterà a un’ulteriore rafforzamento della vocazione turistica di questo comprensorio che, già attualmente, esibisce numeri notevolissimi di flussi sia d’estate che d’inverno.
Certo è che vedendo le persone sbarcare dalla funivia a 3200 metri e correre vocianti sulla neve del ghiacciaio con i sandali da spiaggia e la maglietta senza maniche, la ricerca di un senso più approfondito emerge in tutta la sua necessità.
Il ghiacciaio che ogni anno si ritira di molti metri, è uno schiaffo evidente per gli scettici del riscaldamento globale, sempre pronti a minimizzare i danni prodotti dall’inquinamento e dall’uso sconsiderato delle risorse del pianeta in favore dell’arricchimento di pochi.
Forse, tra qualche anno, accanto al museo della grande guerra, erigeremo quello del mondo insostenibile, ricordando i gesti senza senso che la nostra specie ha fatto in questo periodo di sviluppo squilibrato e irresponsabile, dichiarando guerra a se stessa e alla propria sopravvivenza su questo pianeta: ci metteremo i rifiuti abbandonati nei picnic, le fotografie delle code di automobili nei grandi esodi per le vacanze, quelle delle località prese d’assalto e quelle delle periferie urbane deserte avvolte da una cappa insopportabile di calore, abitate da anziani soli e poveri che non possono permettersi le fughe del turismo di massa.
Luoghi troppo vuoti e luoghi troppo pieni, flussi non governati dalle politiche e dal senso.
La grande montagna assisterà paziente: i nostri conflitti sono insignificanti, durano poco come le nostre vite, nulla se paragonati ai tempi delle rocce, delle loro rughe e delle loro trasformazioni.