Come le strade che percorriamo quotidianamente i luoghi sono “comuni” quando non riescono più a sorprenderci diventando risaputi, già noti, incapaci di farci incontrare pensieri nuovi e nuovi sentimenti.
La lettura negativa o quanto meno un po’ annoiata dei luoghi comuni che i nostri spiriti romantici hanno, si stempera se pensiamo che per un gruppo sociale i luoghi comuni sono invece molto importanti, perché cementano la base irrinunciabile della comprensione reciproca, del sentire collettivo, del sottaciuto e dell’implicito.
La somma dei luoghi comuni dà origine a quel patrimonio insostituibile e prezioso che chiamiamo buon senso, giacimento per fortuna assai vasto, generato dalla stratificazione di esperienza, memoria, apprendimento, intuito e ragionevolezza: a ben vedere i luoghi comuni sono proprio ciò che distingue l’intelligenza umana, imperfetta e fallibile, da quella ben più solida e potente delle macchine, assegnando alla nostra specie fragile e goffa un commovente e delicatissimo primato nel dominio del mondo.
Il buon senso ha una dimensione geografica e storica, è legato all’esperienza vissuta in un dato luogo e in un dato periodo: il buon senso di un eschimese è diverso da quello di un boscimano o di un abitante della savana, così come senz’altro, il buon senso di un antico romano era diverso da quello di un abitante della capitale nel Seicento.
Prevedibile e medio il buon senso ha in sé qualcosa di limitato ed un po’ claustrofobico: per superarlo bisogna far ricorso al sogno, agli ideali, alla ricerca ostinata, alla follia dell’insoddisfazione e dell’ansia, all’insofferenza per i limiti e per le costrizioni dettate dalle norme vigenti.
Così è sempre avvenuto: l’arte, la scienza, l’intelligenza superiore sono sempre riuscite a infrangere i canoni, spostando in avanti o altrove i limiti del buon senso, rigenerandone i contenuti, facendoli crescere e progredire.
In questo gioco di salti e inseguimenti, di innovazioni e standard, per molto tempo nella storia buon senso e buon gusto hanno viaggiato paralleli, intrecciando valori, riferimenti, criteri e codici, nutrendosi degli stessi cibi, edificando con gli stessi materiali.
Ora non più.
Nel mercato globale il buon gusto vive in una dimensione a sé, staccata dai luoghi e dai costumi, legata invece alle logiche del consumo e della sua espansione infinita, che hanno spezzato le tradizioni e le specificità, le storie e le geografie.
Mangiamo cibo prodotto a migliaia di chilometri di distanza dai luoghi in cui viviamo: ci vestiamo con marchi italiani fatti di tessuti cinesi e confezionati da mani rumene.
Tra noi e la gran parte dei segni di cui siamo circondati il legame è quello atopico della pubblicità e dei suoi modelli, dei grandi gruppi di distribuzione, che costruiscono contenitori replicati, dove vendono merci uguali ovunque.
Il buon senso vive una crisi forte, privo di riferimenti e instabile, ipersollecitato e incapace di controllare il mondo.
Per contro anche i nemici storici del buon senso, artisti, scienziati, innovatori e filosofi, vivono una crisi parallela e inversamente proporzionale: infatti se il problema era prima quello di infrangere i limiti stretti dei valori e delle convenzioni sociali, oggi probabilmente, la vera rigenerazione è da ricercarsi nel recupero di un equilibrio perduto, di un valore medio capace di condurre a scelte comuni e condivise .
Come canta Lucio Dalla, forse l’impresa eccezionale, oggi, è essere normale.