Torno spesso a vedere le architetture che ho progettato, o quelle che hanno progettato gli altri.
Mi interessa verificare come gli edifici attraversano il tempo e come registrano il suo passaggio.
Le persone sono più prevedibili di un edificio dinnanzi al fluire del tempo: il loro invecchiamento, pur con tutte le differenze che caratterizzano le esistenze umane, si consuma in un ciclo più breve, con un andamento mediamente più inquadrabile entro tracciati dei quali conosciamo le forme, le tipologie ricorrenti, i cicli.
Il tempo degli edifici è completamente diverso. L’azione del suo scorrere si intreccia con lo scorrere delle azioni di chi abita e usa gli spazi, lasciando i suoi segni, accelerando, ritardando, sospendendo, invertendo il processo di degrado della materia.
Gli edifici vivono molto più a lungo di chi li abita e proprio per questo lasciano trapelare, per chi le voglia trovare cercandole con attenzione e delicatezza, tracce di civiltà e memorie di creature che ci hanno preceduto: spesso sono ciò su cui scriviamo i nostri segni e i nostri sogni con la speranza che li portino con sé, in nostra memoria, nel futuro, rendendo la morte un po’ meno definitiva.
Lari e Penati dialogano nei luoghi e ne determinano la forma: la lunga vita delle pietre e la breve vita degli umani si stratificano in uno spessa coltre di significati e di segni.
Tra edifici e abitanti a volte si instaura un rapporto di sintonia e affinità, a volte di conflitto e scontro: gli edifici trasformano chi li abita e chi li abita trasforma gli edifici.
Ecco perché ritorno a vedere gli spazi che ho progettato: mi piace capire quale rapporto s’è instaurato tra le pietre, le persone, gli usi. Mi piace capire fino a che punto sono riuscita a interpretare i bisogni di chi mi ha pagato perché gli risolvessi il problema dell’abitare o fino a che punto ho forzato la sua vita entro un involucro e dentro modalità che non lo rappresentano.

È vivo in me un ricordo particolarmente significativo di contrasto tra una casa e i suoi abitanti.
La casa del ricordo non è frutto di un mio progetto, non potrebbe mai esserlo perché è uno spazio forte, perentorio e io non sono capace di progettare così. Io progetto come una ricamatrice.
La casa è bella, fortemente ritualizzata, giocata su raffinati contrasti tra forme, materiali e sensazioni: grandi pareti di marmo bianco inclinate circondano un ambiente centrale con un camino monumentale, di fatto una piazza a doppia altezza sulla quale si affacciano gli spazi più minuti e intimi dell’ammezzato. Tutto è coperto dal grande tetto a struttura lignea, caldo e colorato dialoga con la lucentezza fredda del marmo di Carrara.

illustrazione © Francesca Perani

 
In questa scenografia sapiente di grande impatto evocativo si muovono i proprietari: come fantocci senza spina dorsale si agitano goffamente con una gestualità stonata, incomprensibile.
Sono brutti, ma il contrasto con la bellezza della casa li rende bruttissimi.
Persi nel popolo del buon gusto si potrebbero mimetizzare nello standard medio e diffuso, ma la casa di marmo amplifica tutti i loro difetti rendendoli caricaturali, esasperati.
La casa detesta i suoi abitanti sicuramente più di quanto loro potrebbero mai detestare la casa della quale non capiscono pressoché nulla.
Non so alla fine chi vincerà la guerra, perché di guerra certamente si tratta: se la bellezza della casa evidenzia quasi con ferocia la macroscopica bruttezza degli abitanti, questi con la loro incomprensione restituiranno giorno dopo giorno, piccoli gesti di distruzione inconsapevole, di tradimenti costanti e prolungati.
Ciò che appenderanno alle pareti, che appoggeranno sui mobili, il modo di ruotare le sedie, di allestire la tavola, di usare gli spazi: tutto sarà conflitto aspro, insanabile dei segni.
Capisco che in fondo ciò che mi irrita maggiormente del buon gusto è l’esibizione manifesta e pornografica di uno scollamento tra i segni e chi li porta addosso, la mancanza di coincidenza, di reciprocità…… E ci risiamo, torna ancora il terapeutico potere della consapevolezza…
Quante volte facendo il mio mestiere mi imbatto in aspri conflitti semantici.
In questo momento, in questo paese il tema del “bello” è nettamente separato da quello del potere e della ricchezza. Questa è una novità, perché se ripensiamo alla storia dell’arte ci rendiamo conto che il potere ha sempre assunto tra i propri compiti quello di rappresentarsi al massimo livello esprimendo i canoni della bellezza, producendo opere straordinarie e capaci di sopravvivere nel corso dei secoli tramandando valori, significati, sistemi di pensiero.
Quale sistema di valori sono in grado oggi di trasmettere le nostre periferie degradate e sciatte?
Ma ancor più: quale sistema di valori estetici sono in grado di trasmettere le villette opulente e ricche che, abitate da silfidi e nanetti di cemento hanno occupato le nostre campagne, consumando non solo la risorsa del suolo, ma insieme quella della bellezza, del senso collettivo, della cittadinanza?
Sto dalla parte delle pietre: nell’aspra lotta che la modernità senza bellezza ha sferrato contro la nobiltà dei segni passati, sto dalla parte di ciò che non respira e non si riproduce automaticamente e senza pensiero.
Detesto l’acquirente del palazzo che ieri ho visitato, la sua Suv da industrialotto opulento, il suo diploma comprato in una scuola privata, la sua arroganza da ricco che pensa di poter comprare tutto, compresa la classe che non ha, la cultura che non ha mai amato: detesto le sue certezze che derivano dall’esercizio di un potere senza meriti, dirigente senza sudore dell’azienda di famiglia.
Insieme ai suoi simili ha invaso il mercato immobiliare degli edifici antichi sommergendolo di buon gusto: dalle ville dei sobborghi residenziali i nuovi potenti hanno deciso di trasferirsi in massa in case capaci di rappresentare la storia e la cultura, in una gara impazzita di status symbol e prestigio che ha drogato il mercato immobiliare dell’edilizia storica rendendone impossibile l’accesso ai molto più squattrinati intenditori che sarebbero davvero in grado di apprezzare la qualità e la bellezza delle testimonianze di altre epoche.
Sto dalla parte del palazzo in cui il nuovo acquirente verrà presto ad abitare, splendido esempio seicentesco di architettura nobiliare: mi fa male pensare al momento in cui nel salone affrescato rimbomberanno i suoi passi e le sue volgarità, i suoi discorsi senza fascino e senza senso.
Spero che i fantasmi delle pietre si ribellino e insieme a quelli dei putti dipinti si coalizzino per rendere la vita dello sgradito ospite impossibile al punto da allontanarlo per sempre.