In questo momento, in questo paese, ora e qui, il cantiere edile è un luogo nel quale si concentrano assumendo connotati inquietanti alcuni dei tratti più deleteri della sottocultura italiota.
Come architetto frequento i cantieri da anni: non mi sono mai sottratta a questa parte del mestiere convinta che l’architettura trovi il suo vero senso soltanto nel momento in cui si compie, diventando reale, diventando costruzione.
Il cantiere è la riproduzione concentrata di un sistema sociale in cui parole come organizzazione, gerarchia, governo, strategia e finalità trovano un’esemplificazione chiarissima: dentro il cantiere il lavoro di molti, ciascuno con il suo ruolo, viene organizzato per conseguire un obiettivo comune, per edificare una nuova realtà.
Teoria e pratica, scienza e manualità, tecnica e tecnologia si incontrano e producono un risultato corale che è fatto di intelligenze sommate che esprimono una capacità collettiva, un senso e una finalità condivisi.
Ebbene, in questo momento, in questo paese una parte dei cantieri è ben altro da ciò.
Non c’è traccia di intelligenza collettiva, di strategia finalizzata, di competenze che agiscono sinergicamente. Molto più spesso il cantiere è un luogo dove manodopera demotivata, a volte disperata, si muove in situazioni ampiamente oltre i limiti della decenza senza capire il senso edificante di ciò che sta facendo, dove tecnici incompetenti e senza sogni mettono la propria professionalità a disposizione di un unico obiettivo che è quello di glissare le regole di una burocrazia ottusa, dove imprenditori cani cercano facili guadagni producendo merda.
Non si parla in molti cantieri, perché non c’è una lingua, perché non ci sono significati comuni.
Ma che c’entra il cantiere con il buon gusto?
Abbiate pazienza: come un paziente sul lettino dello psicanalista ho bisogno di poter contare sulla vostra attenzione, sulla vostra comprensione. E come un paziente sul lettino dello psicanalista libero i miei pensieri scoprendo a mia volta man mano, nessi e legami tra i dettagli della mia esistenza.
Anche nella scenografia del cantiere che riempie la mia anima e le mie giornate riaffiora infatti il nemico, ricompare il buon gusto.
In maniera eclatante nell’impresario che chiamerò Signor Z, quarantacinquenne gonfio di denaro nero e di muscoli da palestra, l’uomo più griffato del mondo.
Nel sopralluogo di ieri l’immagine di questo uomo si stagliava improbabile e surreale sullo sfondo dei ponteggi di un cantiere di restauro che sto seguendo: scarpe color violetto con lunghe punte affusolate (firmate Prada mi ha spiegato), golfino in cachemire attillato dello stesso colore che sottolineava la tartaruga dei muscoli palestrati del torace, jeans tagliati e sdruciti (sapesse quanto costano!) cellulare color oro con ciondolo D&G e suoneria con il motivo di un pugno di dollari.
Aveva un’espressione contrita. “Che succede, La vedo depresso” gli chiesi. “Mi hanno rubato l’anello di Gucci… oggi architetto è una giornata no”…
Dietro di lui il cantiere: un operaio rumeno stava caricando macerie su un camion malandato, mentre un principe senegalese preparava il vano dei nuovi scarichi fognari nel fango del piano cortile. Due ragazze in tuta bianca descialbavano l’intonaco antico delle volte a crociera del portico, parentesi umana e civile dell’edilizia, toccavano i muri con la delicatezza e la maestria con cui si cura un malato quando gli si vuole bene.
La scena, sul fondale della storia secolare narrata dall’edificio, riassumeva densamente un mondo, quello dell’edilizia, che sempre più assomiglia a un dramma piuttosto che a un’operetta: il Signor Z. griffato ne faceva parte integrante senza capire alcunché, protetto dalla patina spessa e impermeabile del suo buon gusto.

illustrazione © Francesca Perani