Quella mattina conobbi l’impresa che aveva vinto l’appalto per l’esecuzione dei lavori di sistemazione di una piazza da me progettata in un nucleo periferico della città.
Era un’opera pubblica.
Nelle opere pubbliche sia il progetto che l’esecuzione dei lavori sono soggetti a gara d’appalto: con le norme introdotte di recente la gara viene vinta da chi promette il maggior ribasso economico sul costo della prestazione che offre.
Quella mattina conobbi l’impresa che aveva fatto il maggior ribasso d’asta e che, per questo motivo, si era aggiudicata l’appalto per l’esecuzione della mia piazza.
Sì, la piazza è davvero mia, se non totalmente, almeno in parte, perché i luoghi diventano di chi li ama e di chi instaura con loro un rapporto intimo di riconoscimento e affetto.
Per me fare un progetto è sempre una storia d’amore e un nuovo legame che attraversa tutte le fasi, dall’innamoramento iniziale, alla conoscenza sempre più approfondita, fino ad un pezzo di vita insieme, quotidianamente, prima della separazione, ognuno per la sua strada; come quando i figli prendono il volo verso il loro futuro e si staccano dalle madri che li hanno generati, anche i progetti a un certo punto, appartengono ad altri, fanno la loro vita e, maledetto l’architetto che pensa di poter inchiodare un luogo a un destino immutabile legato al suo immaginario e alla sua volontà piuttosto che alla vita che scorre e che cambia continuamente.
La mia piazza era stata appaltata all’impresa che incontrai quella mattina: l’appuntamento per la consegna del cantiere era sul posto, alle 11.
Io, il coordinatore per la sicurezza, l’altro direttore dei lavori e il responsabile del procedimento per conto dell’amministrazione appaltante tutti eravamo puntuali, raggruppati all’ombra di uno dei tre grandi tigli, la cui presenza faceva di quello il posto più ospitale nella mattina caldissima: pensai, compiacendomi, a quanto fosse stato giusto impostare il progetto sull’obiettivo di conservare i tre tigli monumentali, nonostante le richieste scriteriate e masochiste di alcuni residenti che chiedevano l’abbattimento degli alberi perché quando cadono le foglie sporcano la strada.
L’impresa arrivò come un miraggio nel deserto: tutti ci stropicciammo gli occhi alla vista di quella valchiria bionda e muscolosa, seno esplosivo, capelli lunghi e sorriso smagliante dietro gli occhiali da sole.
Era lei il titolare dell’impresa, forse l’unico membro: di edile aveva soltanto un’abbronzatura intensa come quella dei muratori, levigata però da una cura che rivelava creme e attenzioni estetiche quotidiane e non casuali da frequentatrice di spa.
Fu del tutto inutile affrontare qualsiasi discorso sull’andamento del cantiere, sui lavori, sulle loro modalità: ogni discorso scivolava sulla pelle vellutata della bionda che nulla capiva di tutto ciò e guardava quel luogo con l’assoluto disinteresse di chi sogna la costiera romagnola e i suoi divertimenti notturni, quel luogo del quale io conoscevo tutto e che già, con uno stato d’animo misto di ansia ed eccitazione, vedevo trasformato dal mio progetto.
I luoghi sono così, a volte esistono con intensità ed emozione, a volte sono semplicemente uno sfondo noioso e insignificante delle nostre azioni noiose e insignificanti.
I luoghi siamo noi: noi siamo il mondo e la sua interpretazione.
La bionda sapeva che non avrebbe più messo piede in quella periferia per lei così confondibile e priva di trama; infatti, come capita spesso in questo paese, l’impresa che aveva vinto la gara della mia piazza era un’impresa che presta il suo nome ad altri che fanno poi davvero i lavori come subappaltatori.
Non l’avrei più rivista, ma la sua immagine, al contrario, si stampò nella mia memoria di quel luogo e delle sue contraddizioni, nitida e allucinata.
Non sapevo ancora se la mia piazza sarebbe mai diventata la piazza degli abitanti, narrazione condivisa e allargata: di certo mi fu chiaro che, in quel momento, la storia era solo mia, perché alcune storie sono difficili e ti inchiodano alla solitudine.
O forse la vera solitudine è quella che ti separa da te stesso e quindi da ogni storia possibile e da ogni mondo reale, condannandoti a un perenne esilio, a un essere “sempre altrove”.
Forse la separazione da noi è la condizione inevitabile nell’epoca della pubblicità e del consumo globale.
La bionda mi apparve come una metafora sexy e formosa dell’alienazione contemporanea.

Non fu l’unica situazione surreale.
Arrivarono a un certo punto i materiali con i quali realizzare i selciati previsti per la nuova pavimentazione lapidea della piazza: granito giallo, resistente, duraturo, colorato con le tinte padane della pianura che aveva attorno, calde soprattutto quando piove e i colori diventano vivaci e scintillanti.
Fino a poco tempo fa il granito giallo veniva importato dal Portogallo ma quello che arrivò per la piazza veniva dalla Cina. Sì i mille metri quadrati di lastre e cubetti della piazza periferica di una cittadina del nord Italia erano arrivati via mare dalla Cina.
Lì il costo della mano d’opera è talmente più basso da rendere conveniente il trasporto su questa distanza e, poiché questo è un mondo che con masochismo continua a non considerare i costi relativi all’inquinamento e al consumo di risorse a lungo termine, la motivazione è più che sufficiente per generare nuovi flussi imprevedibili, nuovi spostamenti iperbolici nel grande plasma della merce globalizzata.
Non posso fare a meno di pensare all’evidente schizofrenia che separa la retorica del paesaggio dalla sua costruzione reale: credo che in questo momento storico non esista un solo regolamento edilizio, testo e trattato sul tema che non esalti e raccomandi l’uso di materiali cosiddetti “locali”, senza con questo porsi il problema di cosa ciò significhi e di come ciò sia possibile.
D’altra parte, se è vero che nella storia delle civiltà umane la disponibilità e la reperibilità dei materiali è alla base delle culture artigianali e delle tradizioni costruttive che fissano le identità locali e le differenze dei paesaggi, è anche vero che l’uomo si è spesso servito di materiali importati da mondi remoti e altri, purché capaci di soddisfare la sfera simbolica dei compiti di significazione dell’architettura monumentale e celebrativa. Anche ai tempi della Roma imperiale il buon gusto di una classe dirigente decadente e invecchiata veniva alimentato da candidi marmi peloponnesiaci, dai graniti egiziani e dai marmi policromi di tutta l’area mediterranea.
Ebbene sì. La mia piazza era colma di contenuti non locali, il primo dei quali ero proprio io che con quel luogo avevo acceso un flirt da poco tempo, una frequentazione che, per quanto intensa e quotidiana, sarebbe durata comunque soltanto per una brevissima parentesi.
Poi c’era l’impresa fantasma e c’era l’impresa reale nella quale lavoravano immigrati romeni e senegalesi che, totalmente estranei, avrebbero contribuito alla costruzione di quel luogo in maniera determinante,… poi le pietre della Cina……
Forse l’identità dei luoghi è qualcosa di più profondo delle parti e degli elementi che li compongono……
Forse l’identità appartiene alla memoria, alla narrazione, al mondo impalpabile e immateriale dei significati.
La statua in pietra collocata sopra la recinzione della canonica rappresenta San Michele arcangelo guerriero della giustizia, con in mano una spada e una bilancia, nell’atto di trafiggere il male ai suoi piedi: la farò restaurare, dopo anni di incuria e di abbandono che gli hanno spezzato le ali e deturpato i lineamenti e gli attributi.
Dalla sua posizione guarderà la nuova piazza e i suoi abitanti, testimone del tempo che passa, custode del luogo e delle sue contraddizioni.