Ieri sera l’ho incontrato.
Sì, ho cenato con il buon gusto.
Era in splendida forma, rinvigorito dall’ozio delle vacanze estive e dalla situazione conviviale che esaltava la sua presenza attribuendogli il ruolo di ospite d’onore.
Era una cena tra concittadini lombardi uniti dal fatto di aver tutti scelto il mare della Puglia come meta delle proprie vacanze. In realtà quello non era l’unico elemento d’unione: alcuni dei commensali si conoscevano e frequentavano normalmente, in quanto appartenenti alla lista civica che si era formata per supportare il Sindaco alle elezioni amministrative, mentre gli altri, come me, erano amici di qualcuno dei presenti.
Anch’io ero in forma: una settimana di Salento mi aveva riconciliato con me stessa e con il mondo.
Amo questa terra, le sue pietre e i suoi ulivi, i suoi selciati lucidati dal tempo che ti fanno sentire “dentro” anche quando cammini per strada.
Amo l’architettura dei centri abitati fatta di impaginazioni asciutte e sobrie in cui si incastonano gioielli di decorazione lussureggiante e fantasiosa, mensole, sculture, portali e bugne.
Amo l’olio e il pane pugliesi, i pomodori, le olive e le mandorle fresche, le melanzane e le angurie. Amo il bianco abbagliante degli intonaci e il giallo del tufo leccese che si accende al tramonto: amo la piazza di Trani, credo che sia uno dei luoghi più straordinari d’Italia, appartiene alla mia idea di bellezza, ne sostanzia una parte importante.
Amo il cimitero di Palamita, la piazza di Alessano, il mosaico del pavimento della cattedrale di Otranto.
Amo i muretti a secco della campagna, le strade dritte all’infinito che attraversano il territorio come fucilate, il mare a est e il mare a ovest………
La cena tra concittadini lombardi avveniva in una splendida masseria ristrutturata con rispetto e avvedutezza: la serata era fresca e il porticato sotto il quale erano collocati i tavoli abbracciava i commensali, riparandoli dolcemente dopo la giornata di maestrale, sole e sale.
La conversazione era leggera e fatua, fatta di luoghi retorici tipizzati “quando siete arrivati?… quando partirete?…….Com’è l’acqua da voi?… oggi però ha fatto caldo, ma per fortuna la sera si respira… anzi ci vuole anche il golfino! ….”
Furono le prime portate a spostare le argomentazioni sul tema della cucina locale e poi, via via, come si addice alla buona società di questo periodo, sul tema del cibo in generale, di nuovo cibo, sempre cibo.
Cibo nei piatti, cibo nei discorsi, cibo nei desideri e nelle parole… cibo e di nuovo cibo.
Negli ultimi dieci anni sono pochissime le occasioni conviviali durante le quali non abbia sentito parlare di ricette, piatti e ristoranti: sono talmente poche che le ricordo ancora tutte, con gratitudine e stima per i presenti. In queste poche occasioni senza la retorica del cibo ho trovato amici e maestri.
Parlare di cibo è però, purtroppo, uno dei classici del buon gusto sociale: indicarsi chef, luoghi speciali, guide gastronomiche, “posticini” esclusivi è una cifra che ha preso tutti, vecchi e giovani, donne e uomini, in una carovana vorace che gira il mondo alla ricerca di sapori e prodotti, ricette e aromi.
Inutile dirvi che questo è un tema che mi lascia tiepida e nel quale di certo non riesco a offrire il meglio di me: quando ancora non ero abituata a questo genere di argomentazione, agli esordi della mia stentata vita mondana, facevo enormi sforzi per riuscire a resistere alla tentazione di andarmene abbandonando queste tavolate tanto loquaci in cui tutti avevano il racconto del ristorante eccezionale dove avevano cenato di recente e io sola non avevo nulla da dire. Mi avrebbero di certo compatito se avessi osato rivelare di non aver mai trovato un menù “irresistibile”, “divino”, “insuperabile” o “straordinario”. D’altra parte provo ancora un’intensa emozione quando ripenso ai miei eroi giovanili della beat generation, che nutrendosi di rospi marci in metropolitana si erano scrollati di dosso la grevità e la ristrettezza dei modelli borghesi, casa, famiglia, lavoro e oratorio, deschi apparecchiati per il rito della nutrizione, travolti da un’ondata di inappetenza e vivacità intellettuale.
Sentire parlare di cibo quando si è sazi di cibo è per me un’esperienza disgustosa: guardando le persone della tavolata pensavo a Vitellio e alle descrizioni che Tacito fa nelle Historie di questo bulimico imperatore che mangiava continuamente e poi vomitava per poter ricominciare, consumando il proprio potere nella voracità dei banchetti. O a Giulio Cesare che nei racconti di Lucano si faceva imbandire il desco imperiale sui campi di battaglia coperti dai cadaveri dei nemici e inondati di sangue, saziandosi di cibo e del sentimento di potere che i sopravvissuti avvertono con una forza prorompente.
I lombardi in Puglia non raggiungevano tali vertici titanici di orrore e perdizione: le loro figure che ospito a pieno titolo in questo libello sul buon gusto non potranno mai ambire a occupare un posto benché marginale nei libri di storia o nelle immortali opere letterarie dove solo i grandi peccatori e i grandi santi possono sperare di avere qualche considerazione.
I loro discorsi veleggiavano tapini sopra il pieno di benessere e consumo che rende questo momento storico nei paesi ricchi così mediocre e torpido, sazio appunto di manicaretti e leccornie culinarie, stordito dalla pancia piena e dai sensi appagati.
I lombardi in Puglia erano la rappresentazione un po’ viscida ma realistica di un nulla sociale, impegnato in piccole tresche, incapace di sogni e di idee, buone e cattive che fossero. Seduti sui loro portafogli gonfi consumavano il Salento e i suoi sapori, così come poco prima e poco dopo avrebbero consumato altri pezzi di mondo, per poi passare il tempo tra un ristorante e l’altro a curarsi dall’obesità e dai disturbi che rendono anche il benessere usurante e crudele, come si legge sulle facce rubizze di giovani flaccidi invecchiati dall’iperconsumo.
Dalle guide gastronomiche e dai ricettari la conversazione passava con disinvoltura alla politichetta dei programmi elettorali: si parlava di alleanze, di avversari, di posti presi, di posti persi.
La città era in realtà un grande menù da cui consumare a sbafo pietanze più o meno appetitose e succulente: nessun vomito vitelliano però, nessuna grande bouffe oltre la misura del decoroso buon gusto: dalla tavolata erano esclusi i sogni, gli ideali e gli estremi di ogni genere e stile. Qualsiasi idea nata dal ragionamento o dall’emozione autentica sarebbe stata ritenuta pericolosa, out of limit.
Il notaio, forse il più emerito tra i buongustai presenti, si lanciò in spericolate acrobazie in materia di arte (altro tipico ingrediente delle conversazioni delle cene degli ultimi dieci anni): forse voleva dimostrare sensibilità e conoscenza specifica, forse, come tutti i palancai, cercava di riscattare la propria anima greve con acquarelli e oli: peccato che non ne azzeccasse una e che non mancasse di tradurre continuamente la propria squisita sensibilità artistica con dei “quanto costa”o “questo si che è un grande affare”.
Decisi che non avrei votato il Sindaco nonostante la sua stimabilità, vista la qualità dei suoi supporter e la bassezza della compagine di cui si era contornato: in fondo si diventa come quelli che si frequentano o, comunque, non c’è motivo valido per frequentare persone che non ci facciano altro che schifo. E ancora, per dirla con un detto che trovo particolarmente espressivo, “…non si va a nozze con i fichi secchi…” traduzione popolare e senza via di fuga del più aulico: “Va coi saggi, diverrai saggio. Chi frequenta gli stolti, diventa stolto”.
Scendere a patti con il buon gusto è l’unica condizione possibile per poter governare una città di provincia?
Forse sì, ma questo non cambierà la mia decisione: non lo voterò più.

Post scriptum. In memoria di Miriel
C’è un legame tra culto del cibo e rifiuto dell’alimentazione necessaria per sopravvivere? Tra ingordigia da iperconsumo alimentare e anoressia? La magrezza estrema non è forse una risposta al dis-gusto per gli eccessi vacui e privi di anima del buon gusto vacuo e privo di anima?