C’è una nicchia assai significativa del buon gusto che riguarda la casa, il suo arredo, la sua configurazione complessiva e di dettaglio: è una nicchia riservata e “interna” nella quale hanno regnato per decenni le donne, lasciando agli uomini l’esercizio del potere negli spazi esterni, visibili e pubblici. Dentro la casa le donne hanno costruito un codice complesso di abitudini e di comportamenti sedimentando una ricca grammatica di segni e di presenze.
Donne padrone degli interni: donne creatrici di domesticità.
La dimensione domestica richiede mestiere, apprendimento, dedizione e bravura: apparentemente serena e accogliente si basa in realtà sulla fatica e sull’attenzione quotidiana di qualcuno che usa per questo la sua vita, le sue risorse e la sua intelligenza.
Vite dedicate di donne.
Una casa ospitale, profumata e pulita, addobbata di fiori freschi e merletti, di cuscini e tappeti, di ottoni e argenti lucidati, di tappezzerie e decoupage presuppone la presenza di qualcuno che, a tempo pieno, si dedica al pensiero dell’interno, alla sua organizzazione, alla sua economia e al suo buon gusto.
Aromi di cibo cucinato, profumi di saponi e biancheria, freschezze di tessuti e tendaggi accolgono i padri quando rientrano stanchi dall’esterno, avvolgendoli in una dimensione intima, riservata, protetta dal rischio dell’altro e dell’esposizione.
Casa rifugio e nido, casa per sé.
Casa e famiglia, stanze che accolgono i riti di vite codificate in cui lunghi periodi di quotidianità vengono punteggiati da pochi momenti speciali durante i quali l’interno incontra l’esterno, si presenta, si mette in mostra. Sono i momenti degli inviti, degli ospiti, delle cerimonie che scandiscono la vita dei membri della famiglia, battesimi, comunioni, natali e matrimoni.
Sullo sfondo di tutto questo, registe poco appariscenti, sono le donne, donne che organizzano e gestiscono, aiutate da donne che operano, puliscono, curano, cuociono e cuciono. Donne che allevano i figli e arredano le loro camerette, donne che accolgono gli ospiti per il tè, donne che baciano il marito quando torna la sera, che coltivano i fiori sulle terrazze. Madri e sorelle, badanti e cameriere, cuoche e sarte, infermiere e stiratrici.
La casa delle donne del dopoguerra in Italia s’è organizzata secondo canoni precisi, trasmissibili da madre a figlia, oggetto di corsi scolastici, supporto basilare e imprescindibile di un sistema sociale allargato in cui gli uomini, lavorando, provvedevano alla ricostruzione di un paese.
Ora non più: le donne stanno cambiando e le case con loro.
Il dentro e il fuori si sono mischiati, pubblico e privato si fondono dentro le case della televisione e dei collegamenti in rete 24 ore al giorno con il resto del mondo. Ma, più di ogni cosa, le donne sono uscite di casa e hanno abbandonato le alcove rinchiuse della domesticità: come gli uomini, abitano ora, sempre più spesso e sempre più a lungo, gli esterni e gli spazi pubblici.
Le conseguenze sono enormi, alcune buone, altre cattive, alcune certe, altre imprevedibili. Le case disabitate dalle donne hanno perso i merletti, le trine e i fiori freschi: i bambini sono diminuiti e con loro il bisogno di stanze e di funzioni separate. Sono cambiate le cerimonie, i cibi, le tecnologie. Sono cambiate le famiglie, le loro abitudini, la loro composizione.
S’è perso il buon gusto così densamente condensato nei consigli che Donna Letizia elargiva alle lettrici dei settimanali femminili degli anni 50/60, quel buon gusto che ha fatto delle donne italiane nel dopoguerra un fiume culturalmente compatto e che ora è sostituito da molti rivoli che viaggiano in direzioni varie, tendenze soggettive e instabili, spinte dai meccanismi del consumo globale.
Non so se ciò che è rimasto all’interno delle case senza donne sia “bello”: a volte penso che sia brutto e un po’ doloroso come ciò che si colloca nei periodi di transizione durante i quali si percepisce con evidenza lo sfaldarsi dei codici previgenti, senza però che i codici nuovi riescano a far sbocciare forme nette, chiare e necessarie. È come se un treno che viaggiava lungo binari diritti e sicuri fosse deragliato, sganciando i vagoni ognuno verso una direzione diversa, ognuno dove vuole o dove può.
In fondo Donna Letizia e il suo buon gusto erano binari che indicavano la via, erano educativi e insegnavano a vivere: sui binari stava la donna perfetta padrona di casa, stimabile madre e moglie: fuori stavano madri, mogli, padrone di casa imperfette e criticabili, se non addirittura condannabili. Non a caso i consigli del buon gusto si costruivano per negazioni oltre che per affermazioni. E quando ricevevi un ospite dovevi fare in un certo modo, ma soprattutto non dovevi fare in un modo diverso.

Mi considero un esempio emblematico di donna “fuori” e deragliata, essere mutante verso un futuro che ancora non c’è: come tale detesto la dimensione domestica che appesantisce il mio corpo e il mio spirito di oggetti da pulire, di impegni da rispettare, di polveri che si depositano, di bollette che si accumulano.
Odio i soprammobili e i tappeti: in generale vorrei una casa senza tessuti in cui gli acari possano annidarsi e gli odori rimanere intrappolati.
La mia casa dovrebbe essere una macchina efficiente per far fronte a un bisogno prepotente e irrinunciabile: il riposo. Una casa contro la stanchezza, una protesi del corpo per recuperare forze, energie, ma anche senso, pensiero.
Riposo vuol dire sonno, ma anche silenzio, possibilità di riflessione, letture.
Casa come luogo selezionato, fatto di scelte che ti rappresentano in assoluta libertà, senza schemi a priori, senza condizionamenti. Casa su misura, la tua, personalissima misura.
Una finestra verso il mare che amo, l’altra verso un albero che cambia le foglie e i colori durante le stagioni, una sul cielo. Una grande scorta di sapori elementari e fragranti, che non ti costringano ore ai fornelli, ma che ti restituiscano il senso del cibo per vivere, togliendoti alla schiavitù del vivere per il cibo. Una casa silente, dove non subire rumori che non ti appartengono, motori, vicini vocianti e maleducati, campane e sirene, cani che abbaiano: una casa con i tuoi rumori, la tua musica, le parole e i suoni della tua anima.
Casa vuota di cose, ma piena di pensieri sulle cose, piena di sensazioni che si avvicendano come i tuoi stati d’animo, come la tua disponibilità.
Il minimalismo dei segni, prima ancora che un trend è un bisogno di sopravvivenza in un mondo che ti vende tutto, intorpidendoti i sensi e il cervello. Una nuova ecologia dell’esistenza, una deframmentazione del disco rigido che rimetta ordine nei tuoi rapporti, lasciandoti lo spazio per respirare e gustare l’aria che inali.
Non mi servono stanze, ho bisogno di luoghi da attraversare fluidamente seguendo i miei percorsi mentali. Non voglio tele alle pareti, fisse e polverose: voglio immagini cangianti che si possano spegnere quando la loro presenza mi infastidisce e affatica. Voglio il bianco e i colori, voglio la luce e il buio. Di certo non voglio cose che mi costringono.
Donna Letizia, io non ti assomiglio per niente: so che detesti la mia casa, caotica e mutante, ma ti prego non infierire. Il futuro luminoso è ancora una larva, il presente è confuso e nevrotico.

illustrazione © Francesca Perani